Di segnali ignorati e bugie raccontate per restare legati ad una scrivania detestabile. (Cap. 1)

Quante volte avete sentito un amico o un’amica che è statǝ traditǝ dal partner dire, con il senno di poi “avrei dovuto capirlo prima, ma… ho ignorato tutti i segnali“. A me è successa la stessa cosa ma in campo lavorativo/professionale (tranquilli, nessun tradimento!). E così come accade per i campanelli d’allarme nelle relazioni, alcuni segnali li ho coscientemente ignorati, razionalizzando o facendomi andare bene la situazione, trovandone addirittura il lato positivo, altri si sono mostrati nella loro chiarezza solo dopo aver finalmente ammesso a me stessa che era tempo per me di cambiare strada.

Sin dall’inizio del mio percorso di studi e soprattutto della mia vita professionale ho ricevuto miriadi di segnali che mi dicevano che non avevo intrapreso la strada più giusta per me, segnali che ho ignorato, fatto finta di non vedere, a cui ho dato giustificazioni errate, fino a che non si sono tradotti in vera e propria sofferenza ed insofferenza psicologica, sofferenza e malessere peggiorati dal fatto di lavorare in un modo ed in contesto per me non congeniali.

Come tanti studenti, il mio percorso universitario è stato frutto di una scelta “pilotata” dall’esterno, non tanto in base alle mie reali inclinazioni quanto a quello che sembrava più conveniente lavoristicamente parlando: una laurea in giurisprudenza quanto meno avrebbe facilitato l’accesso ai concorsi nella PA se proprio non avessi trovato la mia affermazione come libera professionista. E il primo segnale che forse non avevo né la maturità né il coraggio di cogliere, mi venne proprio dallo studio del “manuale di orientamento”. Spulciando i piani di studi delle varie facoltà l’occhio mi cadeva sempre su una pagina specifica e non era Giurisprudenza.

Ricordo nitidamente sia quel carezzare “l’altra pagina”, il tornarci dopo aver letto qualsiasi altro piano di studi, sia il leggere tra lo sgomento e lo sbigottimento l’infinita lista di “Diritto_qualcosa” che componeva il piano di studi di Giurisprudenza. Quello sgomento e quel luccichio sono stati i primi segnali che ho ignorato. Mi ero detta che lo sgomento era figlio della mia ignoranza, del non saperne nulla e non avere la minima idea di cosa trattasse la maggior parte delle branche del diritto che mi accingevo a studiare. Il luccichio credevo non contasse, non fosse meritevole di attenzione, e si… belle materie, interessanti… ma poi? cosa faccio? Meglio Giurisprudenza, apre la porta per i concorsi…(così dicono).

Per lungo tempo, diciamo sino alla laurea, non ho avuto modo di percepire altri segnali e, anzi, ero quasi convinta che avessi fatto tutto sommato una scelta giusta. Ho sempre avuto uno spiccato senso della giustizia (come se fare l’avvocato centri qualcosa con esso). Però sapevo dentro di me che non stavo inseguendo nè una vocazione, nè una passione, per cui il patto che avevo stretto con me stessa era quello di non rinunciare con gli studi di legge a coltivare i molteplici altri miei interessi (e ricordo bene anche il punto in cui camminando lo avevo giurato a me stessa, lì, nel mio paese natale, a San Marzano di San Giuseppe).

C’è un altro fattore da considerare in questa iniziale “sordità” ai segnali, che immagino possa trarre in inganno qualsiasi studente disciplinato che non mi ha consentito di effettuare un riesame precoce della mia scelta. Sto parlando dei buoni risultati che conseguivo con lo studio.

Se fossi stata una scapocchiona o una cattiva studente, eternamente fuori corso o che ha tentato l’esame di stato decine di volte, magari la lampadina dell’aver intrapreso la strada sbagliata si sarebbe accesa prima. Invece non solo avevo passato l’esame di abilitazione al primo tentativo, ma avevo vinto anche un dottorato, una premio per la mia tesi di laurea… insomma… cose che non ti accadono se non sei “portato” per una certa materia o professione.

La verità è che quello per cui sono sempre stata portata è stato lo studio, mosso dalla curiosità e in larga parte dal senso di responsabilità.

Essere un bravo studente non equivale a essere un eccellente ed ispirato professionista, e di esempi ne è pieno il mondo.

E dopo aver iniziato a lavorare, è stato solo il senso di responsabilità a farmi portare a termine i miei impegni lavorativi, con i clienti e con lo studio, non certo l’amore o la passione per il mio lavoro. Trovavo gratificazione nell’aiutare le persone a risolvere un problema contingente, non nel mio lavoro. Ho capito dopo che fare le cose per senso di responsabilità non è uguale a fare il lavoro per cui siamo tagliati. Sentirsi contenti per aver aiutato qualcuno, non significa amare il proprio lavoro.

Per usare terminologia un po’ più tecnica, ero e mi trovo nella mia zona di competenza, magari ci sarei potuta rimanere a vita se non fosse che restarci mi sta accompagnando in uno stadio di depressione alimentata da senso di inadeguatezza e senso di colpa, nel fare un lavoro per cui non mi spendo al 100% delle mie potenzialità e per cui ogni giorno faccio una fatica immane per restare concentrata e motivata.

Dedicherò altro post agli strumenti che mi hanno aiutata ad aprire gli occhi e a mettere a fuoco i miei veri valori e desideri. Ora mi voglio soffermare su cosa mi ha fatto tenere gli occhi chiusi per così tanto tempo.

Con il passare del tempo, mentre via via si delineava e insinuava in me il disamore per la la professione che svolgevo, due sono stati i principali fattori che mi hanno portato a chiudere gli occhi davanti all’evidenza per tanti anni e a tirare dritto:

  1. I sacrifici fatti dalla mia famiglia e da me stessa per farmi studiare e conseguire il titolo.
  2. La convinzione che fosse tardi per cambiare rotta.

Sicuramente sono due pensieri limitanti comuni a molti, ed è anche per questo che ritengo importante parlarne prima di ogni altra cosa. E, diciamolo, non sono fattori dissimili da quelli che condizionano chi “decide” di non vedere i segni di un tradimento o di un matrimonio fallito, come nell’esempio fatto in apertura del post.

Ho notato che anche tra i miei amici e colleghi insoddisfatti del lavoro e/o demotivati dall’assenza di gratificazione economica, molto spesso il freno più forte che li trattiene dal decidere di cambiare completamente rotta resta quello dei sacrifici fatti dalla famiglia per mantenerti 5+ anni all’università. Come dire alla propria famiglia che si butta tutto alle ortiche? Il massimo della decisione “coraggiosa” (o forzata dalla necessità) tra gli avvocati ed ex avvocati che vogliono appendere la toga al chiodo è quella di buttarsi sui concorsi pubblici, e l’ho fatto anche io. Ma proprio studiare per i concorsi, proprio la fatica che mi costava studiare materie per cui non nutrivo più interesse, mi ha fatto chiedere se la via che stavo per intraprendere (concorsi nella PA) sarebbe stata quella che mi avrebbe aiutata a sentirmi realizzata e completa, sul piano personale prima che lavorativo o familiare. La risposta diventava sempre più nitida, ad ogni concorso tentato: NO.

E recentemente mi sono proprio ritrovata ad osservarmi sperare allo stesso tempo di passare e non passare un concorso nella PA (nello specifico, un concorso comunale). Speravo di passarlo per la vicinanza del posto di lavoro alla mia casa, per il mitologico stipendio a fine mese, per l’assenza di obblighi e spese legate alla libera professione… Speravo con la stessa forza di non passarlo, perché avrei continuato a sentirmi inadeguata e invischiata in mansioni e ambiti che probabilmente sarei finita a detestare. Leggevo le domande del questionario di fronte a me e mi ripetevo: ma che c@##o me ne frega di sta roba…

Il giro di boa è accaduto a dicembre dell’anno scorso, quando ho finalmente maturato la decisione di cancellarmi dall’albo degli avvocati, dato che non svolgo attività di tipo contenzioso, ma solo consulenza contrattuale (per cui non è al momento obbligatoria l’iscrizione all’albo).

A dire il vero mi ero già prefissata di fare un bilancio entro il 2020 per decidere se mantenere l’iscrizione o meno.

Quello che non era in programma era la chiarezza mentale che sarebbe scaturita da questa decisione di pura convenienza economica.

Quella che era banalmente una decisione dettata solo da ragioni economiche (iscrizione all’albo = costi considerevoli per la Cassa di Previdenza) è stata in realtà una benedizione, l’evento che finalmente ha squarciato il velo delle bugie che mi stavo raccontando, la goccia che ha fatto traboccare il vaso della Epifania Joyciana.

L’effetto benefico non è stato solo economico ma soprattutto psicologico: non ero più parte di una cricca di cui facevo fatica a sentirmi parte. Lasciato per terra questo macigno della “definizione formale”, pian piano la foschia che avevo davanti agli occhi si è dissipata lasciandomi guardare con maggiore chiarezza intorno e cogliere tutti quei segnali che avevo ignorato.

E’ stato come indossare un paio di occhiali con la correzione giusta di miopia+astigmatismo, invece che una ipercorrezione della miopia, che ti fa vedere le cose solo apparentemente bene, ma che in realtà affatica inutilmente la vista (storia vera!).

Vuoi sapere quali sono stati i segnali che ho ignorato e le bugie che mi sono raccontata in questi 10 anni? Ci vediamo nel prossimo post!

E tu? Senti di aver intrapreso la strada giusta per te? Pensi sia troppo tardi per inseguire un altro sogno? Scrivilo nei commenti.

3 risposte a “Di segnali ignorati e bugie raccontate per restare legati ad una scrivania detestabile. (Cap. 1)”

  1. Io fin da quando frequentavo la scuola elementare ho sempre pensato di fare l’insegnante e per questo ho studiato. C’è stato un incidente di percorso perché volevo insegnare Inglese ma dopo due anni di Lingue (facoltà che onestamente mi faceva schifo dal punto di vista umano), sono passata a Lettere e in fondo il mio sogno si è realizzato. Non ho mai pensato di essere inadeguata e ho sempre messo passione e dedizione nel mio lavoro. Questo alla fine è ciò che conta. Aspetto il seguito…

    Un abbraccio.

  2. […] una spiegazione più o meno verosimile se pure in questi anni mi era capitato di porvi attenzione. Nel precedente post vi ho parlato dei pensieri limitanti che mi impedivano di guardare con chiarezza…, e in un altro post vi parlerò degli strumenti che invece mi hanno aiutato a fare chiarezza nella […]

  3. […] Potrei continuare a lavorare in questo ambito vita natural durante. Il punto è: voglio farlo? La risposta la conoscete già e sapete anche che per fissarsi un nuovo obiettivo o cambiare lavoro, non basta la consapevolezza […]

E tu? Che ne pensi?